La regista

Quando il primo bambino ha riso per la prima volta, la sua risata è andata in mille pezzi, che sono schizzati dappertutto. È da li che sono nate le fate. E ora, ogni volta che viene al mondo un bambino, la sua prima risata diventa una fatina. Quindi ci dovrebbe essere una fata per ogni bambino o bambina.
Neverland – Un sogno per la vita.

A cinque anni ancora non parlava e non portava mai le scarpe. Si era costruita una casa sulla grande quercia in campagna dai nonni e lì viveva, almeno gran parte del tempo. Aveva occhi grandi, color caffè, capelli biondi e lisci e una grande frangia scompigliata che le copriva gran parte del viso rotondo. Grassottella sulle cosce ma agile e veloce, adorava correre indossando vecchi berretti rubati. In particolare, indossava sempre la bombetta del nonno. La adorava. Questa però gravava su gran parte del viso, così correndo sbatteva spesso un po’ ovunque e si provocava dei bomboloni enormi sulla fronte, ma orgogliosa com’era non si lagnava e non piangeva. Non piangeva mai.
Non era affatto attratta da bambole, vestiti o robe di moda, non era neppure un tipo socievole, anzi posso testimoniare personalmente che già a cinque anni si era guadagnata con dignità la sua indipendenza e la sua solitudine. Forse era proprio il fatto che non emetteva suono che la rendeva insolita, speciale. I genitori preoccupati l’avevano costretta ad eseguire analisi ed esami clinici di qualsiasi genere negli ospedali più rinomati dell’epoca. Avevano viaggiato lungo tutta la nazione, ma tutti i dottori con cui parlavano rimanevano invece sempre incantati di fronte al sorriso della bimba e finivano tutti col dire che era solo una piccola speciale. Avrebbe parlato un giorno. Con un tipino così, si doveva essere solo un po’ pazienti.
I genitori quindi si arresero all’evidenza, furono pazienti e le concessero spazio e così le fecero il regalo più grande che un padre e una madre possano mai donare ad una figlia: la libertà.
Con sacrificio quindi e non senza rammarico da parte genitori e dei parenti più stretti, le era stata donata l’autonomia e lei se la prese tutta, proprio tutta. Cominciò ad osservare il mondo degli adulti e da lì prese sostentamento. Rubò un armadietto dalla cantina dei nonni, lo trascinò con fatica nella casa sull’albero e lì vi sistemò il necessario per sopravvive: acqua a sufficienza, pane e formaggio. Tanto formaggio. Appositamente si svegliava e si alzava la notte, attraversava quatta quatta il piccolo giardinetto che la separava dal mondo degli adulti, si intrufolava in casa e rubava silenziosamente dal frigo tutto il formaggio che trovava. Lo nascondeva nella sua dispensa personale e lo tirava fuori appena poteva. Lo scioglieva con parsimonia in bocca, così lo assaporava per ore. I suoi amici più intimi erano gli insetti (di qualsiasi tipo e razza), con questi giocava e passava la maggior parte del tempo e solo con loro divideva il suo formaggio.
Così nacque la sua passione: tra insetti, pane e formaggio, e con l’ingresso in prima elementare.
Improvvisamente infatti si trovò costretta a vivere in un contesto sociale. Le venne imposto di dividere il suo spazio con altri bimbi, che parlavano.
Parlavano e come se parlavano. Parlavano e gridavano tutti e tutto il tempo. Lei si guardava intorno sbigottita, turbata e mal gradiva tutta quella confusione. Scelse l’ultimo banco all’angolo in fondo, che dovette dividere con un’altra bimba che portava un nome da campagna e grossi occhiali con lenti spesse sul viso.
Alquanto spaventata tornò a casa, piangendo, per la prima volta. Lei, che accennava i si e i no con la testa e che indicava con l’indice della sua manina gli oggetti di cui aveva solo una reale necessità, lì in quel contesto non riusciva neanche a respirare. La madre, anch’essa turbata per quella reazione, le chiese insistendo il motivo della sua angoscia, ma solo lacrime silenziose scendevano sul suo viso e i suoi grandi occhi, color caffè, chiedevano comprensione e pietà.
L’indomani tentò di resistere in ogni modo: inizialmente si nascose sotto il tappeto in salone, scoperta si attaccò alla dispensa, poi al frigo, poi alla gonna della nonna e alla barba del nonno. Stringeva i pugni con vigore, aggrappandosi su qualsiasi appiglio toccasse, mentre la madre la trascinava a forza dentro l’auto. In ultima speranza tentò di nascondersi dentro il cofano, ma la madre scoprì un lembo di gonna che le venne anche strappato. Questo la fece infuriare ulteriormente, così le prese le mani e le legò alla sua cintura. Tutto questo non era mai accaduto, così mentre lei si strappava i capelli dalla testa, la madre fermò l’auto in un vialetto, prese il suo viso tra le mani, la guardò e dolcemente, sorridendo, le disse di non aver paura.
La fantasia continuerà a salvarti, vedrai. Non le parole, le parole non sono importanti.
Così le disse e poi aggiunse.
Devi farti coraggio e se è il caso sguainare la tua spada. Sorridi, sorridi sempre.
Si tranquillizzò, un po’, ma rimase imbronciata per tutto il resto della strada, fino a scuola. La madre l’accompagnò in classe e parlò con la maestra.
Mia figlia non parla, o meglio non parla ancora.
La maestra, che era una ragazzina, la guardò stupita. Forse non aveva capito o forse si, fatto sta che aveva una bella espressione sbalordita, stampata sul viso.
Si, ha capito, continuò la madre, non è muta o sorda, o roba simile, solo che non parla e i dottori dicono che non si sa quando lo farà. Sarà lei a decidere, quando.
La maestra mantenne la stessa espressione. Chiese però, con tono innocente, come si chiamava la bambina. La madre le disse il suo nome e sparì.
Quella bimba non poteva stare all’ultimo banco, all’angolo in fondo, così la maestra la posizionò in prima fila, sul banco vicino alla cattedra. La prese per mano dolcemente, le disse che lei l’avrebbe osservata sempre e le raccomandò di non avere timore.
Appena si sedette però e sistemò i suoi quaderni, avvertì improvvisamente un dolore penetrante allo stomaco; ancora non lo sapeva, ma era l’orgoglio che pressava sul fegato.
La maestra pazientemente, ogni giorno, si impegnava con lei e le insegnò prima le vocali e poi le consonanti e, senza mai ripeterne il suono, lei capì che doveva mischiare tutto insieme e così imparò a scrivere, prima ancora di parlare.
Non socializzava molto e poco si curava dei suoi compagni. Semmai, riusciva solo a dare qualche calcio o pugno a qualcuno. Era sempre aggressiva con loro e notevolmente dispettosa. Nutriva una certa rabbia nei loro confronti solo per il fatto che questi parlavano. Certo, li odiava per questo, molto sinceramente.
Si attaccò così sempre più al suo mondo. La casa sull’albero subiva incessantemente dei cambiamenti e gli amici insetti aumentavano a dismisura. I genitori e la maestra adesso, erano sempre più in apprensione per lei. La scuola invece di migliorarla, sembrava aver peggiorato la sua condizione. La bambina tendeva sempre più ad isolarsi e non vi erano attività che la interessavano particolarmente, o almeno così sembrava. Non partecipava a nessuna attività extra-scolastica e viveva in una casa su un albero.
I genitori, i nonni, la maestra e la sorellina (mai nominata fino ad ora) si riunirono un pomeriggio e cercarono di studiare un piano. Dovevano far qualcosa e stilare un progetto: la bambina era intelligente, si vedeva, e non potevano arrendersi così. Prima o poi un suono doveva venire fuori dalla sue labbra.
Sicuri delle loro forze e delle capacità della bambina progettarono che ognuno di loro avrebbe cercato di coinvolgerla in qualche attività pomeridiana (sport, arte, musica) e, se era il caso, avrebbero demolito la casa sull’albero.
Quella era stata la sua rovina.
Disse la madre.
Al ché successe questo: la bambina, che era testona quanto astuta, avendo costruito un filo diretto tra la sua casa sull’albero e il mondo sempre più crudele degli adulti, aveva origliato e sentendo quelle parole, rimase impietrita.
Quella era stata la sua rovina.
La sua casa, la sua rovina.
Si sedette, anzi crollò letteralmente per terra e avvertì improvvisamente un dolore straziante al petto. Ancora non lo sapeva ma era il panico che premeva sul cuore.
Si alzò in fretta, mise tutti gli insetti e il formaggio in una sacca e scappò via.
Dapprima cominciò a correre, e correre, ma poi stanca iniziò a camminare lungo lo stradone, dirigendosi verso la città. Per un po’ non avrebbero notato la sua assenza, anzi forse fino a domani avrebbe avuto vantaggio. Questo era il pregio della solitudine e lei questo lo sapeva.
Piangeva, non si sentiva affatto bene ma avvertiva che quella era la scelta giusta: scappare, lontano. Il più lontano possibile.
Camminando camminando, piano piano, si fece buio e lei cominciò a sentirsi sola, così come solamente i bambini possono sentirsi, soli.
Improvvisamente vide delle luci, lontano, dritto dinanzi a se. Sembrava una festa, una grande festa. Si avvicinò, timorosamente. La vita le aveva già insegnato abbastanza per quel giorno. Così, dapprima vide un tendone rosso e azzurro e poi un altro giallo e rosso. Era una danza di luci, odori, colori e suoni. Si avvicinò. Era un circo, bellissimo e grandissimo.
Una volta suo nonno, la portò in un luogo del genere, così lei sapeva che non vi era nulla da temere. A testa alta avanzò, si accodò ad altri della sua stessa altezza ed entrò. Un odore di vecchia stalla invase le sue narici, ma due uomini ossuti, sul palco, stavano già facendo il loro numero ed attirarono la sua attenzione. Si mise in prima fila, quasi fosse il primo banco di scuola e rimase lì incantata. Scimmie, tigri, elefanti, leoni e perfino un orso danzavano insieme e le tutte le luci, intorno, danzavano con loro. Una musica soave la trattenne lì a lungo, in pace. Nessuno le si avvicinò, nessuno la disturbò.
Poi, improvvisamente, sul palco entrò un uomo. Era vestito con una lunga camicia colorata e pantaloni allampanati. Trascinava con sé una valigia. Fece un inchino, svuotò la sua valigia e da lì uscì (con i suoi piedi, immagino) una sorta di pupazzo gigante. Il tizio prese il pupazzo in mano, fece un altro inchino e il pupazzo iniziò a parlare. Parlava sul serio. Era un pupazzo parlante, uno di quelli veri.
La bimba non capiva bene, era stupita si, ma non era convinta. Si avvicinò al palco più che poteva. Così vide con i suoi stessi occhi, color caffè, che il pupazzo parlava davvero. Il tizio gli poneva delle domande, lo rimproverava, lo sgridava e il pupazzo rispondeva. Rispondeva proprio. Parlava veramente.
Lei lo avrebbe scoperto dopo anni e solo dopo anni avrebbe imparato quella parola, ripetendola a mente mille e mille volte: era un ventriloquo.
Determinata allora, tra le risate in sala della gente, prese la sua sacca, uscì da lì e si mise a correre veloce. Più veloce che poteva, verso casa.
Correva e correva, fino a quando arrivò al giardinetto dei nonni, frenando batté quasi sulla porta d’ingresso ed entrò. Il petto le batteva forte e sentiva un groppo in gola. Non ne era ancora a conoscenza, ma era il cuore che le premeva in gola.
Erano ancora tutti lì a discutere sui massimi sistemi improntando progetti impossibili.
Lei entrò ansimando e tutti la guardarono sbigottiti. Salì le scale di corsa, su in camera della sua sorellina (quella che non era stata mai nominata), prese uno dei suoi pupazzi e scese giù. Tutti erano ancora meravigliati, non capivano proprio.
Loro non sanno, non lo sanno proprio cosa vuol dire capire tutto e sentire il peso delle parole dentro.
Mise il pupazzo eretto sulla sua mano destra, lo guardò e gli sorrise, poi si girò, sorrise a tutti gli altri e iniziò a parlare.
Ancora oggi sua madre questa storia proprio non la può sentire raccontare e quando questo accade piange per giorni e giorni. Suo padre, si narra, sia rimasto alcuni mesi bloccato sulla sedia. Qualcuno dovette portagli da mangiare, immagino. La sua maestra saltellò, per ore indegnamente, sul tavolo della cucina fino a sfondarlo del tutto. Perché la legge di gravitazione è universale e la maestra l’aveva dimenticato. I nonni si baciarono ed abbracciarono tutta la notte a seguire e dopo nove mesi nacque loro un altro figlio, un miracolo, frutto della felicità insostenibile, si disse. La sua sorellina innominata invece tornò su, nella sua stanza, indifferente.
Quel giorno, invece, per lei cambiò ogni cosa.
Tutto iniziò a girare intorno a lei, gli oggetti quasi volteggiavano dinnanzi ai suoi occhi e tutto cominciò a prendere vita, ad animarsi. Qualsiasi cosa parlava per lei, dando un senso e un significato laddove nessuno lo vedeva prima. Imparò così presto a scrivere scene su scene. Alcune le rappresentò altre no, le tenne per sé. Studiò con fervore storia del teatro per tutta la vita e il palcoscenico divenne la sua nuova casa.
Reale e immaginario si mescolarono: ogni telo era un sipario, ogni individuo un personaggio, ogni ambiente una scena e la sua vita uno spettacolo.

 

Risveglio

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Notte che ti posi sulle labbra
calde e roventi
di passione e veleno,
volgi uno sguardo alla vita.

Sull’iride colorata un bagliore
mescola il vento infuocato.
Gli ultimi silenzi dell’ aurora,
eco estremo della notte.

La stella del mattino
lentamente volge all’oblio
che aspetta, immobile
i fiori di maggio.

 

È così che l’ago della bilancia diventa una lancetta d’orologio

Rispondo sempre amen agli inni che ingegni eletti 
sciolgono a voi con stile elegante e penna forbita.
(Shakespeare – Sonetto 85)

Ci sono giorni in cui ogni cosa che vedo mi sembra carica di significati: messaggi che mi sarebbe difficile comunicare ad altri, definire, tradurre in parole, ma che appunto mi si presentano come decisivi. Sono messaggi che riguardano me e il mondo insieme, e di me parlano e non degli avvenimenti esteriori dell’esistenza ma di ciò che accade dentro, nel fondo; e del mondo, ma non qualche fatto in particolare, il modo d’essere generale di tutto.
Comprenderai dunque la mia difficoltà a parlarne, se non per accenni. Capirai quindi perché alcune volte ho poco da raccontare…
Assorbo poi, immagini e pensieri, registro i particolari, così che possano rimanere lì, impressi nell’anima del mio cuore e oscuri alla mia mente.
Cerco sempre qualcosa da ascoltare, una musica, una canzone, e quando la trovo, l’ascolto senza interruzione; perché mi trasmette un’emozione, un ricordo, un sentimento, uno sguardo, un sorriso, il riflesso di una lacrima… Così vorrei rimanesse, impressa…in me.

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di getto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

È un incanto, però guardo tutto come un inganno.
Vago in questo spazio senza confini. Fuggo di prigione in prigione, perché un sogno non è mai solo un sogno. Ogni gesto, ogni istante, ogni lieve ronzio non si concilia affatto con le leggi silenti dell’arte.
L’arte ammaestrata è un’arte maledetta, quindi non posso dirti nulla, non posso raccontarti di come il rumore si incastra sul colore nei labirinti creati dal tempo.
Non tutto ciò che accade ha un volto o un nome e, apparire e sparire è solo una chimera.
Guardo verso mete irradiabili e le tocco con mano.
Sfioro l’aria camminando su un filo d’acqua e le ombre dietro si allungano divenendo passato.
Spero domani, ma la mia pupilla è già bruciata e la mia bocca è ancora serrata.
È così che l’ago della bilancia diventa una lancetta d’orologio e i miei pensieri si perdono come il raggio dell’ultimo sole nel primo raggio della luna.
Tutto accade di nuovo e ogni cosa si ripete per la prima volta quando fra me e me parlo di te.