Liberi di scegliere?

Quando effettuiamo una ricerca su Google (o qualsiasi altro motore di ricerca), la condizione dell’anonimato (anche se solo apparente) ci porta ad essere sinceri e a trattare quel dato motore quasi come se fosse un confidente: possiamo fare domande scomode, confessare i nostri dubbi, renderci vulnerabili.
Ricorda un po’ la psicoanalisi. Google ha infatti, così come lo psicoanalista, la necessità di capire quale sia il reale intento che si nasconde dietro alle parole chiave che gli utenti inseriscono nella sua Toolbar di ricerca. Se da un lato deve essere in grado di conoscere profondamente le persone e capire come cercano le risposte ai propri dubbi e necessità, dall’altro deve saper interpretare ed archiviare con precisione quegli stessi contenuti che dovrebbero fornire tali risposte. Questo implica che l’algoritmo viene “calibrato” con molti dati: ad esempio più una persona usa un social network più la piattaforma calibrerà le visualizzazioni personalizzandole sempre di più. L’algoritmo di Google, attingendo dai nostri dati (che volontariamente abbiamo rilasciato), così facendo, ci priva di un confronto con il diverso, proponendoci contenuti che vanno a rafforzare e confermare le nostre idee (confirmation bias) o che ci indirizzano verso determinati target, che si stia parlando di moda, cucina, politica o qualsiasi altra cosa.
Fino a qui la cosa, diciamolo, ci sconvolge si, ma solo un po’.
Incredibile è invece come sia possibile passare dalla sicurezza delle ricerche in rete, allo spietato mondo dei social network, dove al contrario la prima cosa da fare è quella di esporsi al massimo, rendendosi appetibili al popolo, pronto a giudicare positivamente o meno.
Gli algoritmi sono progettati per premiare contenuti che portano a mantenere il più a lungo possibile le persone nel social, allo scopo di estrarre il maggior numero di dati da rivendere. Non vorrei farlo, ma lo faccio (perché io sono condizionata), per citare un famoso documentario “The social dilemma”, se non stai pagando per il prodotto, allora il prodotto sei tu.
L’obiettivo è quello di definire profili ad personam, che possono essere utilizzati da pubblicitari o politici per spostare l’attenzione dello user verso specifici contenuti, alimentando un circolo vizioso da cui il cliente fa fatica ad uscire, trovandosi a circoscrivere tra l’altro la propria gamma di interessi a poche tematiche o personaggi. Tali pericolose implicazioni diventano chiare ai nostri occhi (sempre del loro focus stiamo parlando) osservando contingenze specifiche come quelle delle elezioni presidenziali e amministrative di importanti nazioni, in cui i principali protagonisti della sfera politica potrebbero potenzialmente utilizzare le strutture ad algoritmi con il fine di creare per ogni fruitore dei social una sorta di bolla, un mondo in cui si costruisce una propria verità e proprie motivazioni. Per non parlare poi delle implicazioni ancora più pericolose che i social media hanno sulle giovani menti in formazione.
C’è un nuovo acronimo da attenzionare al riguardo, FOMO: fear of missing out; letteralmente, “paura di essere tagliati fuori”, una forma di ansia sociale caratterizzata dal desiderio di rimanere continuamente in contatto con le attività che fanno le altre persone e dalla paura di essere esclusi da eventi, esperienze, o contesti sociali gratificanti o, ancor peggio, la paura che le altre persone possano fare esperienze gratificanti quando non si è presenti o direttamente coinvolti. Vi è un collegamento importante, difatti, tra FOMO e dipendenza da smartphone: a livello teorico il concetto di FOMO si sviluppa online ed è considerato un segnale predittivo dell’insorgenza di dipendenza da smartphone e sofferenza emotiva.
La teoria dell’autodeterminazione (la propensione naturale basata sul personale mix di conoscenze, competenze e convinzioni, propria di tutti gli esseri umani di trovare una motivazione intrinseca per determinare in modo libero e autonomo il futuro) afferma che il sentimento di parentela o di connessione con gli altri è un bisogno psicologico legittimo che influenza la salute psicologica delle persone. In questo quadro teorico, la FOMO può essere intesa come uno stato autoregolativo derivante dalla percezione situazionale che, a lungo termine, i propri bisogni non siano soddisfatti. Infatti la FOMO comporta il desiderio, che può diventare ossessivo, di monitorare continuamente ciò che viene pubblicato dai nostri amici sui social network per poter rimanere sempre aggiornati. Una dipendenza psicologica dall’essere on line potrebbe provocare ansia quando ci si sente scollegati, portando così alla paura di essere tagliati fuori o persino all’utilizzo patologico di internet. Di conseguenza, si ritiene che la FOMO abbia influenze negative sulla salute e il benessere psicologico delle persone, in quanto potrebbe contribuire a fenomeni depressivi.
Il Web, nato come fantastico strumento di accesso alla conoscenza (Web 1.0) e grande opportunità di costruzione di comunità (Web 2.0), rischia così di trasformarsi in una sommatoria di solitudini molto condizionabili.
I giovani (gli adulti questo lo capiscono?) di solito si sentono a disagio quando percepiscono il rischio di “perdersi” ciò che stanno facendo i loro pari. L’adolescenza è un periodo critico per lo sviluppo, segnato da un aumento significativo dell’importanza che viene data al gruppo dei pari. In questo periodo dello sviluppo, gli adolescenti si relazionano sempre di più con i loro pari e meno con i loro genitori. I legami con i pari aumentano di intensità e le relazioni con loro diventano sempre più intime. Cresce così il bisogno di associarsi con loro e di appartenere a un gruppo. I pari perciò diventano la prima fonte di supporto sociale. Partendo quindi dal presupposto che gli adolescenti e le persone in generale, cercano di soddisfare il loro bisogno di sentirsi socialmente connessi con gli altri; i social network possono essere strumenti eccellenti per gratificare il proprio bisogno di appartenenza e popolarità. Questo perché i media assolvono la funzione di collegare gli adolescenti ai loro coetanei e contribuiscono così alla loro socializzazione. Vien da sé che un maggiore uso di Facebook (ad esempio) è associato al forte bisogno di senso di appartenenza e di popolarità dei ragazzi, sempre più influenzati e condizionati dalle relazioni sociali e dal confronto con gli altri. Gli adolescenti, più sono connessi e sintonizzati con gli altri, tramite l’utilizzo delle nuove tecnologie e degli social media, più percepiscono lo stress e la paura di essere esclusi e respinti dalla propria rete sociale; questo grave stato d’ansia sociale non permette più di valutare di cosa realmente hanno bisogno per essere soddisfatti, ma al contrario, li convince che la loro felicità è legata a qualcosa che gli altri hanno e che loro non possono possedere, ma soltanto desiderare. Ne consegue che per rimanere sempre “al passo con gli altri” gli adolescenti, e non solo, esibiscano nelle varie piattaforme sociali in cui sono iscritti, una vita che non è reale ma “costruita e corretta”; sfruttando qualsiasi occasione quotidiana per apparire agli altri, auto-promuoversi e valorizzare sempre più la propria immagine, a volte anche attraverso forme patologiche e preoccupanti di Narcisismo.
A questo punto arriva la domanda, quella che non avrei voluto fare, ma che si pone da sé: i nostri (vostri) figli, sarebbero cresciuti diversamente, con altri desideri ed aspirazioni, con diverse paure e dipendenze, se non ci fossero stati i social media a formarli? Magari i social media non sono intervenuti del tutto, ma la risposta, per tutti, è “si”. Sarebbero stati dei ragazzi diversi e sarebbero diventate persone diverse. Fino a qui, se vi eravate già posti la domanda, non c’è niente di drammatico, ma è così che avreste voluto che si formassero? O forse lo avete dimenticato anche voi, perché condizionati dall’algoritmo di cui sopra?
Quando arriva un like, il nostro cervello lo interpreta come una ricompensa e rilascia una scarica di dopamina dando forza a quello che viene definito “dopamine-driven feedback loop”. Questo circolo vizioso si caratterizza sostanzialmente con l’interazione con il social di turno che, forte del suo algoritmo, ci spinge continuamente a condividere nuovi contenuti. Successivamente avviene un’azione effettiva (il post, il retweet, il commento, o anche solo il “rallentare davanti ad un’immagine”). Più lunga sarà l’attesa, maggiore sarà la soddisfazione nel momento in cui si riceve una reazione (un like, un follow, un commento) che viene interpretata dal cervello come una ricompensa e che genera quella piccola scarica di dopamina sufficiente ad innescare nuovamente il circolo vizioso, che si protrae nel tempo e che può portare inconsapevolmente ad una vera e propria dipendenza.
Cosa possiamo fare allora? Ormai siamo condizionati, ormai sono condizionati (atteggiamento remissivo). Siamo ancora in tempo? Che importa? Dico io, se qualcosa possiamo fare, allora la dobbiamo fare.
Ridurre drasticamente il tempo passato al cellulare (dando anche il buon esempio), evitando di creare profili social a ragazzi troppo giovani, disattivando le notifiche, seguendo più personaggi politici possibile e ampliando gli interessi seguiti attraverso queste piattaforme. Tutto questo con il fine ultimo di ‘spiazzare’ gli algoritmi ed evitare che ci condizionino oltre misura.
Ci vuole, con una certa urgenza, un’educazione digitale per genitori e figli: va spiegato cosa c’è dietro Facebook (ad esempio), va spiegato come utilizzare i motori d ricerca, va spiegato fin dove arriva la consapevolezza dei pericoli che possono nascere in Rete e soprattutto va spiegato che ci sono alternative così che possano essere liberi di scegliere.

Se volete approfondire l’argomento e volete conoscere le risposte date dai ragazzi, vi rimando a questa indagine e ricerca presentata il 5 febbraio 2019 a Milano durante l’evento “Have your say” nel corso del quale è stato firmato un protocollo d’intesa tra il MIUR e Telefono Azzurro per promuovere l’educazione digitale.

𝗟𝗮 𝗺𝗮𝗴𝗶𝗮 𝗱𝗲𝗶 𝗻𝘂𝗺𝗲𝗿𝗶 𝗮𝗶 𝘁𝗲𝗺𝗽𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗖𝗼𝘃𝗶𝗱 𝟭𝟵

Normalmente noi abbiamo a che fare con certe grandezze, e la nostra immaginazione può spaziare da un migliaio di volte maggiore ad un migliaio di volte minore.
Ricordo di aver letto, tantissimi anni fa, un bellissimo articolo a tal proposito sulla rivista “Le Scienze” in cui vi era scritto che Mille più o meno, sembra poco, ma non lo è. Una persona abituata a pensare a cifre intorno ai 10.000-100.000, si rende conto di quanto siano cento milioni, ma già 10 miliardi significano poco, 1000 miliardi è come se non significassero nulla. La mente umana non riesce proprio a “visualizzare” nè un valore, nè l’altro.
Più o meno è come se fossero la stessa cosa.
La neuroscienza studia questo fenomeno chiamandolo “subitizing”, è un processo di subitizzazione (comprensione immediata) dei numeri che nei bambini deve essere stimolato per far sì che questi man mano ne raggiungano l’immediata comprensione, per gli adulti (a meno di casi del tutto eccezionali) invece, anche attraverso una serie di stimolazioni, si arriva ad un punto oltre il quale non si può andare. Visualizzare, immaginare e comprendere i numeri si può, ma fino a un certo punto.
In Italia per Covid 19, fino a ieri, ci sono stati 𝟐𝟑.𝟔𝟔𝟎 morti. Molti di voi si ricorderanno bene quando arrivammo a quota “mille” o “cinquemila”, ma a parte la grandezza del numero in sé, pochi si ricorderanno di quando è stata raggiunta quota 11.000 o appunto 23.000 e man mano che il numero salirà la nostra comprensione del numero diminuirà. Fino quasi a sparire.
La nostra mente inoltre ha dei tempi ben stabiliti per superare shock e paura, se il fenomeno è lontano (figuriamoci se invisibile), cioè se non ci coinvolge personalmente, i tempi saranno molto più brevi (15-20 giorni al massimo) e la nostra capacità di adattamento farà sì che quel fenomeno ripetendosi, ancora e ancora, diventi sempre più accettabile.
Quindi 𝟏𝟔𝟔.𝟐𝟎𝟓, che sono invece i morti nel mondo per Covid 19, per la nostra mente, per il tempo passato, per il nostro sistema di adattamento, hanno quasi del tutto perso il loro significato.
È triste, lo so, ma i giornali e i telegiornali (a meno di varie strumentalizzazioni di singoli casi) adesso spostano la nostra attenzione su Conte vs Salvini, su Regione vs Regione, su Italia vs Europa, su Stato vs Stato. Sembra che addirittura ci sia una sorta di gara in atto tra chi ha avuto meno morti, meno ricoveri e meno casi positivi.
Sono 𝟑.𝟖𝟖𝟐.𝟎𝟎𝟐 i casi accertati nel mondo. Un numero per noi incomprensibile ed anche inimmaginabile. Per farvi un esempio pratico in un pacco di riso da 1kg ci sono all’incirca 52.600 chicchi e quello che la nostra mente riesce a vedere non sono tutti i chicchi sparsi, ma solo il pacco in sé.
Vero è quindi che la nostra cognizione e, di conseguenza, la nostra paura, sono diminuite, ma almeno per me, la sensibilità rimane costante e tale deve rimanere anche la nostra attenzione e il nostro senso di responsabilità, perché le conseguenze sono chiare a tutti e se mentalmente non riusciamo a vederli, affettivamente non dobbiamo mai dimenticarli.
Ci sono dei casi al mondo in cui lo spirito di adattamento non coincide con lo spirito di sopravvivenza e questo è uno di quelli.

Siamo pronti? Il vademecum del buon ritorno al lavoro.

In questo blog, tolgo le vesti da scrittrice e indosso quelle da lavoratrice.
I tempi sono quelli che sono e le mie domande sono diventate più pratiche, se così possiamo dire.
Non vorrei vanificare il mio sacrifico, sono chiusa a casa dal 10 di Marzo, da allora non sono mai uscita neppure per la spesa. Ho fatto una grossa spesa prima del lockdown (qualcosa me la sono fatta portare a domicilio) e vado centellinando giornalmente le mie scorte.
Non vorrei inoltre vanificare il sacrificio di molti, non solo per coloro che sono rimasti a casa come me, ma soprattutto per tutti gli altri che sono dovuti andare a lavoro per mantenere e salvare le nostre vite.
Lavoro in smartworking, più di 8 ore al giorno.
Adesso è venuto il momento di pensare bene, ragionare e preservare al meglio la nostra sicurezza e la sicurezza altrui. Per questo metto tutto nero su bianco, per chiarirmi bene le idee e per capire bene lo stato di sicurezza che mi/vi deve essere garantito.

Elenco le azioni generali che, al momento e forse in un futuro prossimo, un’azienda, piccola o grande che sia, deve mettere in atto per garantire la sicurezza dei suoi dipendenti.

1. Prediligere sempre lo smart working. La task force di Colao sembra stia discutendo questo punto così come segue “Ripartire dallo smart working, una delle novità alle quali ci siamo abituati nell’era del coronavirus. Nei primi mesi di ripartenza il lavoro da casa potrebbe essere reso obbligatorio nelle grandi aziende, al di sopra di un certo numero di dipendenti per sede. Al di sotto di quella soglia, ancora da fissare, resterebbe facoltativo. Ma davanti alla richiesta del singolo dipendente l’azienda non lo potrebbe rifiutare. Naturalmente a patto che le sue mansioni e il suo ruolo siano compatibili con il lavoro a distanza.” (da https://www.corriere.it/politica/20_aprile_13/coronavirus-ingressi-scaglionati-lavoro-smart-idee-task-force-20e5da7a-7db8-11ea-bfaa-e40a2751f63b.shtml?refresh_ce-cp).
2. Test sierologici da usare per la patente d’immunità. Devono essere fatti qualche giorno prima di tornare al lavoro e non so quanto tempo ci voglia per avere i risultati. È ancora poi da chiarire al riguardo se si è veramente immuni al virus. Potremmo riprenderlo? Si, no, boh, non si sa (ci sono virus, come per esempio l’Hiv, in cui la risposta anticorpale c’è, e infatti serve alla diagnosi di avvenuta infezione, ma non neutralizza il virus). Penso che a breve al riguardo ne sapremo qualcosa, ma se così non fosse, a prescindere dal risultato ottenuto dal test, dovremmo prendere sempre le dovute precauzioni e seguire quindi le linee guida di cui sotto.
3. Informativa. L’azienda, attraverso le modalità più idonee ed efficaci, dovrà informare tutti i lavoratori e chiunque entri in azienda circa le disposizioni delle Autorità, consegnando e/o affiggendo all’ingresso e nei luoghi maggiormente visibili dei locali aziendali, appositi depliants informativi.
4. Ingresso con orari differenziati. Non si sa ancora molto al riguardo, cioè non si sa se ci sarà una distinzione (come immagino) tra lavoro in spazi aperti e lavoro in spazi chiusi. Per quest’ultimo caso, si farà un calcolo tra i metri quadrati dello spazio di lavoro e il numero di lavoratori? Su un contratto a tempo pieno, quante ore si dovrà lavorare a turno, per garantire l’operatività?
5. Modalità di ingresso in azienda. Questo punto si snoda su vari aspetti.
– Il personale, prima dell’accesso al luogo di lavoro, potrà essere sottoposto al controllo della temperatura corporea, ogni tre ore. Se tale temperatura risulterà superiore ai 37,5°, non sarà consentito l’accesso ai luoghi di lavoro.
– Occorre dedicare una porta di entrata e una porta di uscita da questi locali e garantire la presenza di detergenti segnalati da apposite indicazioni.
– Il datore di lavoro deve informare preventivamente il personale, e chi intende fare ingresso in azienda, della preclusione dell’accesso a chi, negli ultimi 14 giorni (mi sembrano pochi), abbia avuto contatti con soggetti risultati positivi al COVID-19.
– È costituito in azienda un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del RLS.
– Aggiungo, ci dovrebbero essere delle schede che il dipendente dovrà firmare ogni tre ore a seguito di ogni verifica, per garantire almeno che questa attività venga sempre realmente svolta, ma non si fa mansione di questo.
6. Modalità di accesso dei fornitori esterni. Al momento la situazione è la seguente:
– Per l’accesso di fornitori esterni individuare procedure di ingresso, transito e uscita, mediante modalità, percorsi e tempistiche predefinite, al fine di ridurre le occasioni di contatto con il personale in forza nei reparti/uffici coinvolti.
– Se possibile, gli autisti dei mezzi di trasporto devono rimanere a bordo dei propri mezzi: non è consentito l’accesso agli uffici per nessun motivo. Per le necessarie attività di approntamento delle attività di carico e scarico, il trasportatore dovrà attenersi alla rigorosa distanza di almeno un metro.
– Per fornitori/trasportatori e/o altro personale esterno individuare/installare servizi igienici dedicati, prevedere il divieto di utilizzo di quelli del personale dipendente e garantire una adeguata pulizia giornaliera.
– Va ridotto, per quanto possibile, l’accesso ai visitatori. Qualora fosse necessario l’ingresso di visitatori esterni (impresa di pulizie, manutenzione…), gli stessi dovranno sottostare a tutte le regole aziendali, ivi comprese quelle per l’accesso ai locali aziendali.
– Ove presente un servizio di trasporto organizzato dall’azienda va garantita e rispettata la sicurezza dei lavoratori lungo ogni spostamento.
7. Pulizia e sanificazione in azienda
– L’azienda assicura la pulizia giornaliera e la sanificazione periodica dei locali, degli ambienti, delle postazioni di lavoro e delle aree comuni e di svago.
– Occorre garantire la pulizia a fine turno e la sanificazione periodica di tastiere, schermi touch, mouse con adeguati detergenti, sia negli uffici, sia nei reparti produttivi.
8. Precauzioni igieniche personali
– È obbligatorio che le persone presenti in azienda adottino tutte le precauzioni igieniche, in particolare per le mani.
– L’azienda mette a disposizione idonei mezzi detergenti per le mani.
– È raccomandata la frequente pulizia delle mani con acqua e sapone.
9. Dispositivi di protezione individuale. L’adozione delle misure di igiene e dei dispositivi di protezione individuale indicati nel Protocollo di Regolamentazione è fondamentale e, vista l’attuale situazione di emergenza, è evidentemente legata alla disponibilità in commercio.
Riguardo a questo ultimo punto, visto che al momento non si trovano in commercio, credo/spero che sia l’azienda a fornirle, altrimenti tutti i punti elencati sopra sono assolutamente privi di significato.
Inoltre:
– Le mascherine dovranno essere utilizzate in conformità a quanto previsto dalle indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità; sostituite quindi almeno ogni 4 ore.
– Data la situazione di emergenza, in caso di difficoltà di approvvigionamento e alla sola finalità di evitare la diffusione del virus, potranno essere utilizzate mascherine la cui tipologia corrisponda alle indicazioni dall’autorità sanitaria.
– E’ favorita la preparazione da parte dell’azienda del liquido detergente secondo le indicazioni dell’OMS.
– Qualora il lavoro imponga di lavorare a distanza interpersonale minore di un metro e non siano possibili altre soluzioni organizzative è comunque necessario oltre all’uso delle mascherine e di altri dispositivi di protezione (guanti, occhiali, tute, cuffie, camici, ecc…) conformi alle disposizioni delle autorità scientifiche e sanitarie.
10. Gestione spazi comuni (mense aziendali, zona fumatori, etc)
– L’accesso agli spazi comuni, comprese le mense aziendali, le aree fumatori e gli spogliatoi, è contingentato, con la previsione di una ventilazione continua dei locali, di un tempo ridotto di sosta all’interno di tali spazi e con il mantenimento della distanza di sicurezza di 1 metro tra le persone che li occupano.
– Occorre provvedere alla organizzazione degli spazi e alla sanificazione degli spogliatoi per lasciare nella disponibilità dei lavoratori luoghi per il deposito degli indumenti da lavoro e garantire loro idonee condizioni igieniche.
– Occorre garantire la sanificazione periodica e la pulizia giornaliera, con appositi detergenti dei locali mensa, ascensori, maniglie, delle tastiere dei distributori di bevande e snack, etc.
11. Area condizionata ed ambienti chiusi:. Se qualcuno di voi lavora in un ambiente chiuso e condizionato, vi invito a leggere questo articolo https://www.corriere.it/salute/malattie_infettive/20_aprile_13/coronavirus-condizionatori-propagano-sars-cov-2-cf1c0ccc-7d63-11ea-bfaa-e40a2751f63b.shtml

A questo punto, le mie domande sono:
Queste sono le normative vigenti al momento, chi sta controllando che effettivamente sia così?
Chi garantirà che tutto questo venga realmente regolamentato dalle aziende?
Ci saranno dei controlli nei luoghi di lavoro?
Se l’azienda non dovesse mettere in pratica tutte le misure di sicurezza dettate dal governo, il singolo lavoratore a chi deve rivolgersi?
Ho pensato a tutto?
Non lo so. Di sicuro no.
Ci saranno infatti ulteriori domande, che ognuno di noi ha al momento, ma la domanda principale rimane: siamo pronti?

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