Tra tante ambigue verità
seguo solo la mia ombra
come ogni ultima cosa
la osservo muoversi nel vuoto.
Non so quando
non so dove
ho perso l’amore,
forse tra tante parole
o nel silenzio
di una bara schiusa.
Non cerco un senso
non penso
non oso neppure immaginare
che ci sia un limite
in questa mia
storia di ritorno.
Anche la pioggia ha cambiato colore
e odore,
è il colore dei ricordi:
solo immagini insensate.
“Si vive la vita troppo spesso aspettando che capiti qualcosa di speciale che le dia un senso, gli anni della giovinezza fuggono così nella speranza di dare concretezza ai sogni. Il deserto diventa metafora del futuro, la fortezza il luogo del nostro essere soli, in una terra di mezzo, tra il nostro passato emotivo e sentimentale, che ci lega indissolubilmente alle nostre radici, ai luoghi cari, agli affetti, e il futuro sconosciuto che ci ammalia e ci spaventa, in attesa di un evento decisivo che il più delle volte non arriva mai. E in questa attesa non ci accorgiamo che la vita sta scorrendo, prigioniera di gesti sempre uguali, priva di slanci e di emozioni, in una sequenza di giorni identici, ma è tale l’abitudine, tale la sua schiavitù che nonostante la possibilità di fuggire restiamo inchiodati alle nostre vituperate abitudini ma senza le quali non riusciamo più a immaginare il nostro esistere. E non sappiamo invertire la rotta perché provandoci ci ritroviamo soli, perché nessuno ha aspettato i nostri comodi, gli altri nel frattempo hanno fatto altre scelte, più concrete, forse più semplici, meno eroiche, ma hanno raggiunto la meta senza grosse aspettative, “sanza infamia e sanza lode”. Così la nostra prigione, sebbene sia una prigione, diventa il solo luogo dove riusciamo a stare bene a sentirci al sicuro, perché nulla dobbiamo rischiare, non dobbiamo metterci in gioco, non dobbiamo mutare nulla, solo sperare. Alla fine arriva il momento in cui realizziamo, dall’oggi al domani, che siamo diventati vecchi; e succede che ce ne accorgiamo per un motivo banale, come ad esempio il non voler salire più le scale due per volta, come abbiamo sempre fatto, e che pur avendone ancora la forza e il vigore non lo facciamo più semplicemente perché non ne abbiamo più la voglia, perché il cuore di colpo ha allentato il suo timbro ritmico. Ecco, quel giorno esatto e quel momento preciso sono i punti di non ritorno. E allora verrà la nera signora e ci siedera’ accanto, dovremo mettere le carte in tavola e conferire con lei, che ci chiederà contezza del nostro tempo, di come l’abbiamo speso, e con lei non ci basteranno parole, lei non potrà aspettare le nostre scuse, i nostri tempi lenti. Andrà subito al sodo, e sarà la fine.”
Nella mia mente, tra mille fiori
ho trovato tanti clamori:
sono tutte le voci
rimaste fedeli al mio cuore.
Un po’ me ne vergogno,
ma non più di tanto.
Sento che sono viva e forse
il meglio deve ancora venire,
ad esempio, so che devo vestire la mia anima.
Sono in cerca di nuovi colori
che abbiano almeno un lieve profumo di rosa;
so che manca poco: una fogliolina forse
o quel berretto rosso che tanto ho cercato.
Ho navigato in un mare di miele aspro
cercando l’Itaca perduta.
Non c’è mai stata indifferenza
per niente e per nessuno, mai.
Un lungo viaggio mi ha portata qui,
in questa via tortuosa sotto il vulcano
con un rosso lava che brucia solo gli occhi.
Così il mio cuore è pieno di boati,
botti, rimbombi e tuoni
in questo spazio un po’ guercio e po’ beffardo
che è la mia casa.
Chissà se era così che doveva andare,
chissà se troveranno scritto
da qualche parte il mio cuore
o le vesti briganti del mio amore.
Questo è ciò che lascio:
un urlo altissimo
nella terra arida della gioia avvenire.
Abbott Handerson Thayer 69 / 92 Copperhead Snake on Dead Leaves (1915)
Immobile
sosto nel mio essere
isolata in un cerchio stretto
tra un carico di briscola
e un lungo arrocco
guardo le rondini
volare da lì a qui, da qui a lì.
Non ho pianto per questi morti
ma la mia voce non riesce a tacere
la ferita è più d’una
per individui distinti
colpiti
con l’inganno nel vento
da un invisibile vuoto.
Forse è arrivato il momento
di non vedere
dopo il silenzio è tornato l’affanno
per altri forse, ma non per me
che se vedo, guardo
e non c’è conforto alla tristezza
con solo il cielo negli occhi
rimango ferma nel giorno.
Non c’è altro tempo
che possa passare
nulla potrà riprendere quei passi
perché sono morti,
incredibilmente morti.
“Così, tra pietra e pietra seppi che sommare è unire e che sottrarre ci lascia soli e vuoti.
Che i colori riflettono l’ingenua volontà dell’occhio.
Che i solfeggi e i sol implorano la fame dell’udito.
Che le strade e la polvere sono la ragione dei passi.
Che la strada più breve fra due punti è il cerchio che li unisce in un abbraccio sorpreso.
Che due più due può essere un brano di Vivaldi.
Che i geni amabili abitano le bottiglie del buon vino.
Con tutto questo già appreso tornai a disfare l’eco del tuo addio e al suo posto palpitante a scrivere La Più Bella Storia d’Amore ma, come dice l’adagio non si finisce mai di imparare e di dubitare.
E così, ancora una volta tanto facilmente come nasce una rosa o si morde la coda una stella fugace, seppi che la mia opera era stata scritta perché La Più Bella Storia d’Amore è possibile solo nella serena e inquietante calligrafia dei tuoi occhi.”
Vincent van Gogh – Backyards of Old Houses in Antwerp in the Snow (1885)
Se io potrò impedire
ad un cuore di spezzarsi
non avrò vissuto invano.
Se allevierò il dolore di una vita
o allevierò una pena
o aiuterò un pettirosso caduto
a rientrare nel nido
non avrò vissuto invano!
L’oggi è lontano dall’infanzia
ma su e giù per le colline
tengo più stretta la sua mano
che accorcia tutte le distanze!
I piedi di chi cammina verso casa
vanno con sandali più leggeri!
Avresti potuto colpirmi
da entrambi i lati
con quel sorriso che sa di libertà
ero il tuo bersaglio
con occhi e mani tremanti
ma quanta pena per una sola idea
quanto peso per un solo sogno
è l’angoscia che divora
in ordine
prima il cuore, poi l’anima
impotente allora
ingoia le tue forze
affronta il tuo silenzio
congela il tuo sangue
e torna da dove sei venuto.
Amico mio, questi sono giorni tristi e immobili in questi o forse in altri le montagne dormono soavi e neppure una nuvola osa passare per questo cielo terso fatto solo di vento. È una falsa primavera questa e quel che è vero, invece è che noi non pensavamo alla morte il nostro mondo ogni giorno finiva al tramonto e soli, e sottili come la carta volavamo invisibili al vento. Mi tenevi sempre un posto al mattino accanto a te, condividevamo la stessa musica: un auricolare io ed uno tu, senti qui, ti dicevo tu ascoltavi e sorridevi e ad ogni pausa eravamo desiderosi di caffè, fumo e sorrisi. Credevamo di conoscere il dolore ma anche quello era finto, non credevi alle mie storie ma ti piacevano tanto e ogni tanto mi chiamavi Barabba altre volte Caratterino (mi abbracciavi) invece adesso, non solo mento ma neppure una nuvola riesco a spezzare. Mi hai seguito per tutto questo tempo morto come un’ape ronza intorno a un fiore mi hai chiesto di vederti ma il mio polline è incantato, non ascoltiamo più la stessa musica. Perdonami ho sottovalutato tutto ho indossato la mia maschera preferita e in silenzio sono andata avanti.
Amico mio, tu lo sapevi – lo sapevi mi scrivevi, mi chiamavi e sorridevi ad ogni mia fuga. Era un’intimità ceduta, mai tradita così sono fuggita sulla via del ricordo e di nuovo, mi chiamavi Barabba e poi di nuovo Caratterino (non mi abbracci più). Forse più in là, ti dicevo fermarsi, voltarsi non ha senso e invece adesso sei dove non dovresti e ancora e ancora ci guardiamo mentre tento di restare calma provo a non piangere tu prendi la mia mano mi dici che a parole sono brava e forse un giorno troverò chi mi sa rispondere. Non c’è nessun inganno di fronte alla morte solo sincerità, un’amara verità, come vuoi che non pianga? Adesso piango per questo ricordo ed altri che mi offuscano la mente. Per ogni mia parola, per ogni mia poesia scrivevi “è da te” come se da me ci si dovesse aspettare qualcosa, niente invece. Niente. E adesso anche da te, niente, proprio niente. Era un mondo diverso quello in questo mi hai tradito tu mi hai lasciato tu e fatico a scrivere come fatico a parlare provo a fumare di nuovo con te, sento solo il silenzio non vedo il perdono e di fronte alla tua lapide questa assenza, sola non riesco a lasciarla andare.
Joaquin Torres Garcia – Objet Plastique Planos de color con dos maderas superpuestas (1928)
È bastato
un istante di luce spenta
celato sul lato nascosto di una foglia
sopra la terra verso il cielo
un’ombra morta che insegue la luce del sole.
Così si è svegliata la mia anima, divisa
tra il bene e il male,
tra una voglia e un rifiuto
vagamente ritrovata
nelle vane parole di un tempo.
Eppure era solo per la gioia,
ma forse nulla davvero andava detto
così anche l’occhio è tornato a guardare,
a cercare;
ho respirato di nuovo il profumo di rose
– forse speravo di crescere
di crescere ancora, e invece
ho bloccato l’amore
e sono rimasta qui.
Ti guardo
mentre lentamente sfogli il tuo libro
è un testo di misura, in lingua inglese,
cerco di guardarti dentro
scavo in fondo al tuo silenzio
e sento il vuoto del mio corpo
come lo sentivo da bambina.
Ti sfiori il viso con una mano,
è un gesto
che di sicuro merita un perdono
mentre il mio cuore batte
e combatte,
spera e non trova pace
affamato va a caccia di vecchi fantasmi.
Sei solo un’illusione
– pura allucinazione della mia memoria
precipitata questa notte
nel grande buco selvaggio.
Ho il corpo inchiodato alla sedia
mentre soffoco
nel limpido cielo dei tuoi occhi.
È il piacere che uccide
che mi ha fatto rinascere all’improvviso
non importa che non ti veda
o che non ti abbia
sono una fiamma inquieta
e sembra sempre
che tutto accada per la prima volta.
La prima volta
tra le lenzuola umide
di una casa abbandonata
con la voce del vento tra gli alberi
a tenerci compagnia
in quell’oscuro profumo
carico di solo peccato.
E quelli che leggono ciò che scrive, nel dolore letto ben sentono, non i due che egli ha avuto, ma solo quello che loro non hanno.
[da Il mondo che non vedo di Fernando Pessoa]
Joan Miro – Drawing-Collage with a Hat
So che non inseguo mai ciò che voglio
intorno a me, nell’oscuro silenzio,
inutilmente ricompongo
quel che mai sarà.
Où es Tu?
Non so, ti ho perso
nel mondo reale che oggi
reale non è,
disperso nello spazio immaginario
nel tempo immutato
con gli occhi rossi
colmi di lacrime al vento.
Ancora cerco la mia vita
lì, nei sogni che sognai
penso alla fine
che inutilmente amai.
Où es Tu?
È finito il tempo della pallida neve.
Si è concluso il tuo viaggio?
Sei approdato all’oltre-mondo?
Dove il mare è più profondo
lì, ti vedo
nell’etereo della mia anima che spera
di trovare quello che mai ha inseguito.
Prima ancora che inizi siamo prossimi alla fine alla ricerca di miserabili piaceri in un tempo colmo di nebbia affoghiamo in un calice di tristezza senza sapere quando se non a maggio forse a settembre.
No grazie, prediligo il vuoto in somma solitudine scelgo di non cibarmi e chiudere gli occhi magari forse per sempre.
Curvi al vento accompagniamo la direzione delle canne rincorriamo la luna sui canali e sul mio viso scorgo nuovi solchi chiari verso un fuoco che senza un senso arde contro deliranti scintille.
Non hai capito, questo pane non si spezza e per favore non tornare sotto la terra non c’è più fuoco ma solo sangue dentro al sale.
Joseph Wright – A View of Mount Etna and A Nearby Town (1775)
***
Sulle rovine del sole in un luogo misterioso sale dal suolo il respiro del mondo è un vapore naturale che ha il sapore del mare dagli antri ammuffiti di un’antica umidità che non concede riparo senonché alla deriva del monte per vedere, capire e poi sparire.
Non torno indietro non ho più il passo sicuro ho superato il senso compiuto bisbigliando sciocchezze al soffio del vento, vado avanti per galanteria lasciando spazio all’oblio e ritirando la mia memoria, a stento osservo questa luna mozzata divorata dalla fame ancestrale dell’universo che pena mi fa, diversi tra terra e cielo nel suo giardino segreto ad un solo respiro lontano da me.
Potremmo cominciare da lì, da quel momento in cui mi hai chiesto di spogliarmi. “Per favore”, mi hai detto, “spogliati” e poi mi hai chiesto del tuo amico. Non si trattava di me, ma dei tuoi tempi passati e della tua voglia di mantenerli vivi. “Sai, io ho un sogno” eri fermo e immobile. Fissavi assente il mio orologio posto sul comodino la sera prima, “però forse, c’è qualcosa di reale. Qualcosa, che potremmo trovare insieme.” “Non credi sia tardi?”, azzardai. Era un rischio che dovevo prendere, altrimenti sarei rimasta chiusa in quella stanza, nuda, per chissà quanto tempo. Difatti si prese il suo tempo e io piano piano mi infilai sotto il lenzuolo e iniziai a sonnecchiare, vagando al di là del paradiso. Quando mi svegliai la stanza era vuota, dalla finestra non filtrava alcuna luce. Cercai l’orologio sul comodino, ma non lo trovai e ne cercai il senso: in questa tua inchiesta insensata non capivo a cosa ti servisse il mio orologio. Uscii dalla stanza con la “speranza” di trovarti, pensavo fossi a casa e ti chiamai, ma niente, nessuna risposta, ti cercai, ma niente, non ti trovai. Mi affacciai alla finestra: la pallida luce di un vecchio sole cereo era morta proprio sulla nostra strada, aprendo la via a vecchi lampioni di strada, nulla era più come prima. Traspariva solo una certa tendenza alla delusione. Mi infilai una tua maglietta ed aspettai il tuo rientro. Il tempo passava così lentamente da riuscire ad animare gli oggetti della stanza. Uno ad uno, tangibili in ogni mossa, seguivano la mia concentrazione; così cercai qualcosa da bere. Pensai di ubriacarmi. Se avessi trovato la tua vodka avrei represso forse le mie voglie ed ogni impulso si sarebbe placato, poi magari anche un po’ di musica mi avrebbe aiutato, grazie a quell’indefinibile splendore che porta sempre con sé. Con te invece avevo avuto un abbaglio. Capita, mi dissi, era stato come saltare nel vento. Mi infilai le tue calze e bevvi il primo bicchiere. Potremmo continuare così per anni, pensai: tu sospiri, io sorrido. Tutta quella confusione aveva ingannato anche me e chissà da quanto tempo aveva trasportato te in tutta quella melma di paranoie interiori. Credo che ad un certo punto tu l’abbia capito: non c’è nessuna confusione in una mente semplice come la mia. Guardai di nuovo fuori dalla finestra, fino a dove giungeva la strada, ma vidi solo una fila di macchine ferme al semaforo ad attendere il verde. Mi girai e mi fissai a guardare nel vuoto per rivederti vivo: qualche sera con gli amici, le passeggiate al mare, le domeniche in bici, ogni sera insieme sotto la doccia e tu che ti butti sul letto ed inizi a toccarmi e baciarmi. Adesso penso che c’era tutta la vita in quei baci. La tua vita, ad esser precisi, che ridevi e godevi fino allo sfinimento. Esaminai nuovamente la strada, ma di te neppure l’ombra. Bevvi un altro bicchiere della tua vodka. Era la tua preferita e mi ricordai di quando te la regalai. Eri felice come un bambino solo per il fatto che avevo scoperto quale fosse la tua vodka preferita. Eppure dietro la bottiglia non c’era nient’altro, chissà tu cosa cercavi. Fissai nuovamente la tua bottiglia e lì ti vidi riflesso, eri triste e nella tua tristezza si stava consumando la mia vita, i miei giorni passavano tra i tuoi sospiri. Eppure ti ho regalato quel che volevi: un po’ di vodka e un po’ di inganno. Tutto adesso sapeva di addio e come ogni nostalgia d’amore che si rispetti, non rimaneva che quella insana voglia d’essere voluti, bramati, amati da qualcuno o da qualsivoglia desiderio. Donai un po’ d’acqua alle due piantine che tenevi sul davanzale in cucina. Visto che di te non riuscivo a prendermi cura, mi prendevo cura della tua casa. Chissà perché tu immaginavi un nesso complesso aggirarsi nei miei pensieri e forse da qui la tua delusione e poi il dolore, un insopportabile dolore che viene e va, e lì ti sei perso, e da allora non ti ho più ritrovato. Misi i miei jeans, sistemai la mia roba, man mano pensavo e perdevo del tempo. È lì che mi dirigevo, lungo la strada del tempo. Del mio tempo. Tuttavia, avrei dovuto dirtelo o lasciartelo scritto, che c’è sempre qualcosa che resta e che geme: per me è stato quest’ultimo giorno di attesa tra quelle pareti monotone, per te invece forse sarà stato il mio eterno silenzio al di là di maschere e miti. Andai via e fin qui tutto bene.